
A cavallo tra il secondo e terzo decennio del Novecento, Viterbo conobbe uno straordinario impulso edilizio dopo secoli di letargo passati sotto l’amministrazione dello Stato pontificio; un improvviso risveglio in ampia parte prodotto dall’elevazione a capoluogo di provincia decretato nel 1927. Oltre allo sviluppo di nuovi quartieri popolari oltre le mura orientali (Cappuccini-Verità), anche il centro storico fu interessato da alcuni interventi urbanistici, come la riapertura di Porta Murata, l’atterramento di un tratto di mura medievali per realizzare via XXVIII Ottobre (oggi via F.lli Rosselli),[1] la costruzione della Casa Balilla su via Tommaso Carletti, la demolizione del cinematografo Margherita[2] e di Palazzo Moscatelli che ostruivano piazza del Teatro.
La realizzazione più importante del periodo fu senz’altro la copertura del fosso Urcionio, un rivolo che tagliava in due l’agglomerato intra moenia e che serviva da canale di raccolta degli scarichi urbani; il progetto fu avviato nel 1929 e si protrasse fino al 1938. Oltre a mirare alla riqualificazione della città, l’opera gettava le basi per la costruzione di una nuova arteria viaria, l’attuale viale Guglielmo Marconi, che avrebbe implicato anche l’abbattimento di alcuni caseggiati prossimi all’imbocco di corso Vittorio Emanuele (oggi corso Italia),[3] e lo sventramento di un intero isolato a ridosso del palazzo comunale per far spazio alla nuova via Littoria (oggi via Ascenzi).

Ai margini di questa colossale opera urbanistica si spianarono lingue di terra da destinare a nuovi fabbricati, come il Palazzo delle Poste e Telegrafi in via Littoria e il Palazzo del Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa (ora sede della Camera di Commercio). Per erigere questo secondo edificio fu prescelta un’area di circa 800 m² compresa tra via XXVIII Ottobre, le mura castellane, Casa Ronchini e vicolo della Sorgente nel rione Cunicchio.
Il palazzo era destinato ad ospitare gli uffici del Consiglio dell’Economia di Viterbo, un ente nato nel 1927 con funzioni di rappresentanza delle categorie economiche locali e alle quali presto si accompagnarono anche compiti di natura amministrativa.[4] Dopo neppure due anni dall’inizio lavori, l’inaugurazione si celebrò nell’ottobre del 1933 alla presenza dell’onorevole Giuseppe Bottai, massimo assertore dell’economia corporativista fascista, del Prefetto Tito Cesare Canovai e del Podestà Filippo Ascenzi nonché dei “fascisti di Viterbo, numerose rappresentanze dei Fasci della Provincia convenute nel capoluogo per la celebrazione dell’XI annuale della Marcia su Roma, le forse giovanili e del lavoro e tutte le organizzazioni del Regime”. Il compimento dell’edificio segnò un importante successivo organizzativo per la non certo dinamicissima classe imprenditoriale dell’epoca; per finanziare l’iniziativa non furono sufficienti le economie accantonate nella breve vita dell’ente corporativo e si contrasse quindi un gravoso mutuo di 900.000 lire con il Monte dei Paschi di Siena. I lavori furono commissionati all’impresa dei F.lli Calabresi che utilizzò 600 m3 di cemento armato, 1.200 ql. di ferro e 600 m3 di peperino. Il ricorso al cemento armato fu necessario, soprattutto, per le enormi piattabande costruite sopra il corso dell’Urcionio, che tutt’oggi scorre sotto il prospetto di via F.lli Rosselli.
Per i simboli sui merli della torre e i fregi ornamentali si ricorse a maestranze locali; la statua bronzea dell’Economia Corporativa fu opera dello scultore Publio Morbiducci, già ideatore del monumento al Bersagliere di Porta Pia e del Marinaio nel cimitero del Verano.
Il progetto dell’edificio venne affidato a Cesare Bazzani (1873-1939), l’accademico romano che poco più tardi avrebbe ricevuto l’incarico di costruire anche il Palazzo delle Poste e Telegrafi. La sua cifra stilistica si colloca nell’alveo del tardo eclettismo, una tendenza artistica che segnò l’architettura europea dalla seconda metà del XIX secolo fino ai primi decenni del successivo. Questa corrente negava il concetto di “stile assoluto” e propugnava, piuttosto, l’adattamento di ciascuno degli antichi stili ad uno specifico uso moderno. Ma in molti casi lo scarto tra le intenzioni e le realizzazioni fu davvero grande ed allora l’eclettismo si ridusse a puro metodo di aggregazione di motivi tratti dal passato. Si giunse persino a teorizzare una sorta di decalogo per cui si raccomandava l’uso “lo stile moresco per i teatri, il gotico per le chiese, il greco per le vie di accesso alle città, il romano per le borse, il medievale per gli edifici pubblici, il Tudor inglese o il Rinascimento italiano o francese per le abitazioni”. In Italia, importanti esempi di eclettismo furono la Galleria Vittorio Emanuele a Milano, il Palazzo di Giustizia e il Vittoriano a Roma; ma anche il completamento in stile “falso trecentesco” della facciata di S. Croce in Firenze e la realizzazione del borgo medievale nel parco del Valentino a Torino.
Il gusto storicista e romantico dell’eclettismo divenne un eccellente veicolo per esaltare l’identità culturale nazionale e, con l’ascesa del fascismo, la magniloquenza di taluni suoi esponenti finì con l’aderire all’enfasi ed al monumentalismo propri del regime. Questo connubio vide tra i suoi protagonisti Cesare Bazzani, già rinomato progettista d’inizio secolo a cui si dovevano la Biblioteca Nazionale di Firenze e la Galleria d’Arte Moderna di Roma. Tra gli anni Venti e Trenta, l’architetto romano si aggiudicò moltissime commesse per edifici istituzionali e pubblici; a questo periodo appartengono, ad esempio, il Palazzo del Ministero della Pubblica Istruzione a Roma, i Palazzi delle Poste di Ascoli Piceno, di Taranto, di Forlì, di Pescara, di Rieti e di Terni, la Stazione Marittimaa Napoli, il Casinò di Anzio e la centrale di Galleto presso la cascata delle Marmore. Bazzani ebbe a cimentarsi anche nell’ambito dell’architettura religiosa, come la chiesa del Carmine a Messina, la chiesa della Gran Madre di Dio a Roma, S. Antonio a Terni e S. Cetteo a Pescara.


La gestazione del progetto per il palazzo del Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa di Viterbo fu piuttosto complessa, come dimostrano i vari disegni preparatori conservati nell’Archivio di Stato di Terni; da una prima versione dalle linee rinascimentali si passò a successive varianti sempre più ispirate agli stilemi architettonici del medioevo. In particolare, Bazzani propose un revival, reinterpretato in chiave monumentale, dei modelli viterbesi di edilizia civile due-trecentesca. Il portico che scandisce la facciata ricalca con evidenza i motivi scenografici del Palazzo dei Priori, anche se i capitelli del colonnato sono a doppia voluta, non dissimili da quelli della loggetta rosselliniana di Palazzo Lunensi o di quella del Palazzo della Pace su piazza delle Erbe.


Le finestre a croce del primo livello, anche se prive di cornice marcapiano, si ritrovano sia nel palazzo comunale che in quello Mazzatosta di via dell’Orologio Vecchio; le finestre ad arco del secondo piano, invece, sono inserite in un contorno architravato, quasi una stilizzazione di quelle quattrocentesche di Palazzo Nini in via Mazzini.

Ma è soprattutto nel torrione merlato del lato sud-est che si attinge a piene mani ad elementi medievali, seppure snaturandoli con volumi cubici ed angoli netti. Non può, infatti, negarsi un’assonanza di forme tra la tozza struttura del palazzo dell’Economia (che raggiunge i 38 metri) e la duecentesca torre di S. Biele, entrambe terminanti con un torrino sopraelevato. Anche la grande trifora aperta sul lato meridionale della torre, sormontata da un oculo e compresa in un arcone a tutto sesto, è quasi un accomodamento moderno della loggia del Palazzo Papale o del chiostro di S. Maria in Paradiso.



Quest’edificio, con le sue antinomie tra orientamento storicista e deroghe alla modernità, è testimone di tutti i limiti del repertorio eclettico ed del suo lento declino di fronte alle nuove correnti che si contesero il primato di rappresentare l’architettura italiana prima del secondo conflitto mondiale: quella delle avanguardie razionaliste e quella classico-monumentale di Marcello Piacentini, il regista di massima parte dell’attività edile ed urbanistica del Ventennio fascista.
Nel palazzo viterbese Bazzani finì col riprodurre accademicamente forme prive di funzione e scollate dai contenuti; il risultato fu un’opera pesante e statica, stridente col nuovo linguaggio modernista ma anche incoerente con le prospettive della città, cui paradossalmente s’ispirava. Anche il massiccio ricorso al peperino per i rivestimenti esterni, con i suoi effetti di chiaroscuro, non riesce a neutralizzare la prepotenza con cui il palazzo s’inserisce nel contesto medievale. Un corpo estraneo, insomma, che rivela l’artificio dell’imitazione e l’anacronismo di un’architettura che cercò di nascondere la crisi del suo tempo dietro una retorica scenografia.
di Sermarcus Demontfort
Bibliografia:
Inaugurazione della nuova sede del Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa di Viterbo, Tipografia G. Agnesotti, 1933.
Architettura Moderna a Roma e nel Lazio, Provincia di Viterbo, p. 233
Medioevo e memorie del Medioevo. Fonti, esiti e riusi del Medioevo nel territorio urbano di Viterbo, Maria Teresa Marsilia.
[1] Iniziata nel 1927 e terminata due anni dopo.
[2] Incendiato alcuni anni prima, i suoi resti furono eliminati assieme a palazzo Moscatelli nel 1926.
[3] La cosiddetta Svolta.
[4] Fino ad allora il Consiglio si riuniva nei locali di Via Roma.