All’inizio di via S. Pietro, subito dopo l’incrocio con via La Fontaine e via S. Leonardo, si staglia il severo prospetto settecentesco della chiesa di S. Orsola. Chiuso al culto da circa un secolo, l’edificio è stato nel tempo adibito agli usi più disparati: autorimessa, magazzino e persino falegnameria. Oggi i turisti (e anche i viterbesi) percorrono questo tratto di strada indifferenti e per nulla attratti da questa facciata disadorna e scolorita. Nelle rare occasioni in cui l’ex chiesa viene aperta al pubblico per accogliere qualche sporadica esposizione, si scopre allora che dietro le sue anonime porte cinerine si nasconde un’ampia navata che preserva ancora antichi altari e qualche sbiadita traccia di pitture, testimoni di un fastoso passato e di oltre ottocento anni di storia.
Ed in effetti, l’attuale struttura è frutto di una radicale ristrutturazione operata verso la metà del ‘700 su una preesistente chiesa medievale dal titolo di S. Giovanni in Petra, la cui prima menzione risale al 1190: le sorelle Alfarda, Vivacia, e Altakira vendono a Iohannes Petri coppari una casa situata in parochia Sancti Iohannis in Petra (perg. 2520 Arch. S. Sisto). Da una bolla papale del 1207 sappiamo, inoltre, che S. Giovanni apparteneva alla giurisdizione dell’abbazia cistercense di S. Martino al Cimino, anche se più tardi la ritroviamo tributaria del Capitolo della Cattedrale, obbligo dal quale ottenne l’esenzione grazie ad un decreto di papa Giovanni XXI del gennaio 1277.
S. Giovanni in Petra fu per tutto il medioevo il nucleo di un’importante circoscrizione ecclesiastica e urbana che, come ricordano i documenti comunali, faceva parte del quartiere di “Porta S. Pietro”. La sua importanza era senz’altro legata al fatto di sorge lungo una delle principali direttrici che attraversavano la città, quella che si staccava dalla “via Romana” (via delle Fabbriche) e si dipanava attraverso le abitazioni fino a porta Salicicchia (l’attuale porta S. Pietro). Si trattava di una strada di collegamento molto trafficata che, varcate le mura, intercettava i diverticoli che risalivano la montagna e, quindi, volgeva a sud, attraverso i campi, fino a congiungersi all’antico tracciato della Cassia. Doveva senz’altro essere una via lastricata, come dimostrerebbe il toponimo Salicicchia (silicinea=di selce) ed anche l’aggettivazione “in petra” che accompagnava il titolo della chiesa.
La parrocchia di S. Giovanni era caratterizzata dalla vivace presenza di opifici e botteghe artigiane. Nella vicina via della Fabbriche avevano sede molte officine per la lavorazione del ferro battuto e del rame (i “calderari”). Nella contrada, inoltre, erano attivi diversi mulini alimentati dal fosso che entrava in città nei pressi di porta S. Leonardo e, lambiti gli orti d S. Giovanni, percorreva tutto Borgolungo; una chiara memoria di queste attività resta nel nome della limitrofa via della Molinella. Da alcuni documenti risulta che la stessa S. Giovanni in Petra era proprietaria di un mulino: oggi su via dell’Ortaccio è visibile una piccola mola in granito incastonata nel muro esterno dell’ex casa parrocchiale, forse un avanzo dell’antico macinatoio.
Il Quattrocento, così come per molte chiese medievali del centro, segnò l’inizio di un lento declino anche per S. Giovanni in Petra, che culminò nel 1562 quando la parrocchia venne soppressa e ripartita tra quelle di S. Leonardo e S. Pellegrino. Probabilmente abbandonata, nel 1571 vi si trasferì la Confraternita di Sant’Orsola, che già officiava nella vicina S. Pietro dell’Olmo. Fu da allora che la chiesa iniziò ad essere chiamata S. Orsola, mentre l’originario titolo finì con l’essere dimenticato (non compare più già nelle piante prospettiche della fine del XVI secolo). Nel 1747 fu deliberato di ricostruire l’edificio adottando il progetto disegnato da Francesco Ruggeri ed in pochi anni la chiesa fu ricostruita assumendo l’aspetto attuale. Gli interni furono decorati ed abbelliti; vi contribuì anche Domenico Corvi, celebre pittore viterbese e membro del sodalizio, che nel 1749 disegnò un tondo raffigurante l’estasi di San Giovanni Evangelista (ora conservato al Museo del Colle del Duomo) e alcuni anni dopo realizzò uno stendardo dedicato alla santa titolare (andato perduto). La Confraternita di S. Orsola aveva quale scopo principale quello di amministrare lasciti e donazioni per realizzare quanto necessario a costituire i fondi destinati alla dotazione delle zitelle povere. S. Orsola era, infatti, la patrona delle giovani ragazze e, inoltre, veniva invocata dai nubendi per avere matrimoni felici.
Gli inventari del XVIII e XIX secolo (l’ultimo è del 1842) indicano nel dettaglio l’elenco dei numerosi beni e diritti che l’associazione aveva accumulato negli anni e ben testimoniano l’importante ruolo sociale e assistenziale da essa svolto.
Ai primi del ‘900, come già accennato, la chiesa fu abbandonata e incominciò il suo lungo periodo di oblio.
Sul muro di vicolo dell’Ortaccio sono ancora visibili due formelle in peperino, una è l’emblema del’Ospedale Grande (tre cime con la croce), l’altra riproduce S. Orsola con la testa coronata e, nella mano destra, la palma del martirio, mentre nell’altra mostra il vessillo della vittoria. La santa è rappresenta secondo il modello iconografico di “Maria Madre di Misericordia”, ossia con un ampio mantello aperto, sotto il quale trovano riparo due figure oranti, forse membri della confraternita o semplici devoti. Si tratta di un’immagine comunemente adottata nell’arte cristiana per simboleggiare la santa ed il suo martirio, anche se in altre rappresentazioni le sagome genuflesse sono raccolte all’interno di uno scafo e raffigurano le vergini che seguirono S. Orsola nella morte per la fede. Questa rappresentazione era così diffusa in Italia che alcune confraternite sorte in onore della santa venivano chiamate “navicelle di S. Orsola”.
Questa curiosa iconografia trae fondamento dalla leggendaria vita di S. Orsola che, codificata in una passio nel X secolo, incontrò uno straordinario successo popolare per tutto il medioevo. Secondo la diffusa della leggenda, Orsola era la bellissima figlia di un nobile di Britannia che, segretamente consacrata a Dio, fu richiesta in sposa da un re pagano. La ragazza accettò le nozze, ma impose tre condizioni: la conversione del futuro marito, la compagnia di dieci nobili vergini, seguita ciascuna da mille donzelle, e il pellegrinaggio a Roma dell’intero corteggio. Le richieste furono accolte e, a bordo di undici triremi, le undicimila pulzelle salparono dall’Inghilterra approdando sulle coste della Germania. Arrivata a Roma, Orsola impressionò a tal punto la curia pontifica col suo ardore che papa Ciriaco (sconosciuto alla storia) decise di seguire la giovane nel suo viaggio di ritorno assieme ad alcuni prelati. Nella loro risalita attraverso il continente, Orsola e la sua nutrita compagnia giunsero fino alle porte di Colonia che, in quel frangente, era stretta d’assedio dagli Unni. Le undicimila fanciulle furono insidiate dai barbari, ma piuttosto che perdere la loro verginità preferirono il martirio; la stessa Orsola, della quale si era invaghito Attila, fu uccisa a colpi di freccia (anno 453).
In questo straordinario racconto il soggetto mitologico cristiano si fonde con elementi della tradizione pagana germanica, con il materiale narrativo dei cicli cavallereschi e con la memoria delle prime invasioni barbariche. Eppure, l’epopea delle giovani martiri sembra avere un lontano fondo storico. Nella cripta della basilica di S. Orsola a Colonia, infatti, è stata ritrovata una iscrizione del IV-V secolo in cui un certo Clemanzio dichiara di aver edificato la chiesa sul luogo dove alcune sante vergini erano state uccise per la fede: sanctae Virgines pro nomine Christi sanguinem suum fuderunt.
Gli studiosi hanno osservato che il riferimento alle undicimila giovani iniziò a caratterizzare la leggenda solo dal IX secolo, mentre nel secolo precedente altre narrazioni legate al primitivo culto di S. Orsola facevano riferimento a non più di dieci compagne. Su quest’esorbitante differenza, si sono date diverse spiegazioni. Alcuni sostengono che derivi dall’errata trascrizione di una lapide dove la scritta Ursula et XI M (artyres) V (irgines) venne interpretata come Ursula et undecim millia virginum (XIMV). Per altri la traduzione errata riguardava l’iscrizione di una epigrafe commemorativa del luogo del martirio, posto ad undecim miliarium da Colonia. Vi è, poi, chi ritiene che l’equivoco fosse stato generato dalla parola Undecimilla, cioè “undicesima figlia”, forse accostato al nome di Orsola o a quello di una delle sue compagne.
Fu così che le undici vergini divennero undicimila. Gli agiografi imbastirono, allora, una fantastica e suggestiva storia per giustificare l’aumento delle martiri (mille “accompagnatrici” per ciascuna gentildonna). La nuova leggenda trovò da subito la benevolenza dell’immaginario popolare e la sua credibilità fu avvalorata allorquando, nel XII secolo, fu scoperto un enorme cimitero romano nei pressi di Colonia con migliaia di tombe e scheletri: quale miglior prova dell’immane massacro perpetuato dagli Unni!
Articolo curato da Sermarcus Demontfort