7PORTA SONZA E LA CHIESA DI S. ROSA
L’ultimo tratto di Via Mazzini costeggia il fianco di quella che era la chiesa di S. Matteo (interessanti i tre scudi con gli spadini scolpiti al civico 4) per poi immettersi sul Corso Italia; proprio sul fronte dell’ex chiesa è inserita una epigrafe medievale
che rievoca la fondazione nell’anno 1095 di Porta Sonza per volontà delle autorità comunali e della cittadinanza (9). L’autore della lapide, o almeno di parte di essa, potrebbe essere identificato con Gottifredo da Viterbo, cappellano e notaio imperiale, nonché dotto letterato. Forse quei “versi” furono realizzati negli ultimissimi anni della sua vita (†1199 ca.), quando decise di ritirarsi nel convento di S. Maria della Palanzana.
Alla fine del Corso Italia si apre Piazza Giuseppe Verdi, anche detta “del Teatro”. Subito a destra ha inizio Via S. Rosa, la ripidissima salita che notte del 3 settembre si trasforma in palcoscenico dell’ultimo e più spettacolare tratto del trasporto della “Macchina di S. Rosa”. Quasi al culmine del percorso, sulla destra, s’innesta una stradina che porta ad un edificio che, secondo la tradizione, fu la casa dove la santa viterbese trascorse la sua breve esistenza. Sebbene priva di particolari pregi architettonici, la casetta propone un piccolo museo sulla vita della santa e fornisce una suggestiva ricostruzione di un ambiente domestico medievale (11).
CURIOSITA’: Nata intorno al 1233 da famiglia di modeste condizioni, Rosa a 17 anni fu colpita da una grave malattia che riuscì a superare dopo una visione mistica nella quale le veniva ordinato di prendere l’abito di terziaria francescana. Il 24 giugno 1250 nella chiesa di S. Maria del Poggio avvenne la cerimonia di vestizione e da quel giorno ebbe inizio una febbrile attività di predicazione e preghiera pubblica, soprattutto tesa alla pacificazione della città. Involontariamente caricato di una valenza anche politica, l’apostolato di Rosa fu malvisto dai ghibellini che imposero alla famiglia della giovinetta di lasciare Viterbo e di ritirarsi a Soriano nel Cimino e di seguito a Vitorchiano. L’esilio, in concreto, durò solo un paio di settimane ma al suo ritorno la fama di Rosa era enormemente cresciuta, favorita anche dalle voci di alcuni episodi miracolosi registrati durante il suo peregrinare. Dopo che le clarisse ebbero a rifiutare il suo ingresso nel vicino monastero di S. Maria, la giovane terziaria trascorse le ultime settimane di vita dedita alla preghiera e alla penitenza nel chiuso della casa paterna. Morì il 6 marzo 1251 e attorno alla sua figura esemplare si sviluppò immediatamente un forte moto devozionale. Il processo di canonizzazione, avviato nel 1252 da papa Innocenzo IV e riaperto nel XV secolo da Callisto III, non si è mai concluso con la formale approvazione della santità di Rosa. Ciò nonostante Rosa viene chiamata “santa” in molti documenti ufficiali della Chiesa e risulta iscritta nel Martirologio Romano.
Tornando su Via S. Rosa si giunge direttamente alla grande scalinata (10) di accesso al Santuario di S. Rosa
. Il primitivo nucleo del complesso religioso risale alla prima metà del XIII secolo, periodo in cui venne fondata una comunità di suore francescane e fu costruita una chiesetta dedicata alla Vergine Maria. Chiesa e convento iniziarono ad essere indicati col titolo di S. Rosa, sia nell’uso corrente che nei documenti, solo dal XIV secolo. Dopo gli incendi del 1357 e del 1437, la chiesa fu ingrandita ed abbellita per il giubileo del 1450; risale a questa stagione la commissione a Benozzo Gozzoli, allievo del Beato Angelico, di un grandioso ciclo di affreschi che, purtroppo, due secoli dopo andrà distrutto a seguito di alcuni ampliamenti (nel Museo Civico sono conservati gli acquarelli eseguiti nel 1632 dall’orvietano Sabatini che riproducono gran parte dell’opera del Gozzoli).
Dopo i radicali rifacimenti del XVII secolo, nel 1850 la chiesa fu completamente ricostruita secondo una pianta a croce creca e con un’ampia facciata neoclassica in peperino; nel 1917 fu innalzata la cupola progettata dall’architetto Arnaldo Foschini. All’interno sono custodite poche opere degne di nota: un crocifisso ligneo del XVII secolo sul primo altare di destra, la tela del presbiterio che raffigura S. Rosa, opera di Francesco Podesti (XIX secolo), e soprattutto il bel polittico firmato dal Balletta (1441) posto nella cappella centrale della parete sinistra. Sulla parete di destra, un’inferriata protegge la cappella di S. Rosa dov’è posta l’urna di bronzo dorato
del 1699 che contiene il corpo della santa. Nel convento, raramente visitabile, interessante il refettorio del XVI secolo.
CURIOSITA’: Il 4 settembre 1258, su ordine di papa Alessandro IV, il corpo incorrotto di S. Rosa venne spostato dalla chiesa parrocchiale di S. Maria del Poggio a quello del monastero francescano di S. Maria (quello che poi sarebbe stato reintitolato a S. Rosa). Il celebre trasporto della “Macchina di S. Rosa”, solennemente celebrato ogni anno la sera del 3 settembre, intende rievocare proprio il corteo che accompagnò il trasferimento delle sante spoglie. La prima notizia storica della “Macchina” risale soltanto al 1654, ma è piuttosto probabile che già nei secoli precedenti fosse costume portare in processione un semplice baldacchino con la statua della santa. La prima raffigurazione pervenuta è un bozzetto del 1690 e la struttura presenta dimensioni piuttosto modeste. E’ solo dal XIX secolo che la “Macchina”, accresciuta d’altezza e arricchita di dettagli, inizia ad assumere l’aspetto del campanile illuminato. Virgilio Papini fu il progettista che per più tempo diresse la costruzione e il trasporto della “Macchina”; il suo incarico durò dal 1897 (anno in cui subentrò al padre Paolo) al 1951. Uno dei modelli più cari ai viterbesi è stato senz’altro la “Macchina” detta Volo d’Angeli, progettata da Giuseppe Zucchi e trasportata dal 1967 al 1978; dall’anno successivo il modello è stato sostituito ogni 4/6 anni.
IL TEATRO DELL’UNIONE E IL CHIOSTRO DI S. MARIA DEL PARADISO
Dal piccolo slargo che precede S. Rosa (a destra da chi esce dalla chiesa) si accede alla sottostante Via S. Marco mediante una piccola e nascosta scalinatella. Ai civici 5 e 7 da notare, scolpita sugli archi degli ingressi, la “graticola”, lo strumento del martirio di S. Lorenzo e simbolo della cattedrale (s’incontra in molte vie del centro). La viuzza attraversa una pittoresca quanto poco conosciuta contrada e lambisce l’originale abside di S. Marco , una graziosa chiesetta citata negli atti sin dal 1191 come dipendenza dell’abbazia toscana di S. Salvatore al Monte Amiata (12). A dispetto delle modeste dimensioni (16 x 8 metri), l’edificio sacro
venne solennemente consacrato nel 1198 da papa Innocenzo III alla presenza di ben 15 cardinali, come ricorda un’epigrafe posta sulla facciata. Nonostante i danni subiti durante la seconda guerra mondiale, il tempio ha mantenuto intatto il suo aspetto medievale nella semplicità della navata unica, nel tetto a capriate e nelle mura di conci di peperino non intonacati. All’interno sono visibili: resti di una Madonna col Bambino (attribuita alla scuola del Pastura) sulla parete sinistra, alcuni disegni (probabili schizzi del Fantastico) sulla parete destra e una raffigurazione di Dio benedicente tra S. Pietro e S. Paolo nel catino dell’abside. In fondo all’abside è una tavola con la Madonna in trono col Bambino
datata 1512 ed opera di Giovan Francesco d’Avaranzano, detto il Fantastico. Nella canonica è custodita una raffinata tavola del Balletta avente come soggetto S. Marco (XV secolo).
Di rimpetto a S. Marco, appena nascosto dai grandi pini marittimi della piazza, si trova il Palazzo del cardinale Fazio Santoro, già proprietà del cardinale Forteguerra. Oggi ospita la Biblioteca Comunale degli Ardenti, ricca di molti volumi, codici medievali, fondi ecclesiastici e preziosi incunaboli.
L’invaso di Piazza Verdi è dominato dall’imponente mole del Teatro dell’Unione , edificato nel 1855 su disegno dell’architetto Virginio Vespignani e largamente ristrutturato nel 1950 (13). La facciata in stile neoclassico presenta un doppio ordine architravato ed archi a tutto sesto; l’interno ha mantenuto il gusto dei teatri ottocenteschi e presenta quattro ordini di palchi ed un loggione.
Per chi non si lascia scoraggiare dalle distanze è il caso di abbandonare brevemente il circuito turistico interno alle mura per risalire Via del Teatro Nuovo fino a Porta S. Marco (14) (inizio XIII secolo) e arrivare fino a Viale Raniero Capocci, che altro non è che il tratto urbano della strada statale Cassia. Sottopassato il cavalcavia ferroviario e percorsa, in salita, tutta Via della Caserma, si arriva in uno slargo, solitamente invaso dalle vetture, su cui si affaccia l’austera facciata della chiesa di S. Maria del Paradiso (15). Fu costruita insieme al convento nei primi anni del XIII secolo per ospitare alcune monache cistercensi; in seguito fu ceduta ai frati Minori Francescani (1435) a cui rimase sino al XIX secolo. L’edificio ha subito parecchie manomissioni e rifacimenti, soprattutto in conseguenza dei bombardamenti del ’44. Esempio di assoluta raffinatezza architettonica l’addicente chiostro gotico-medievale
; qui le maestranze locali seppero sapientemente sfruttare l’uso dei decori a tracery e delle arcate a tutto sesto che, attraversandosi reciprocamente, formano suggestive ogive. All’interno delle corsie sono visibili affreschi del ‘600 opera del viterbese Angelo Pucciati.